Circolari

Circ. n. 41/2020

Circolare INAIL n. 22 del 20 maggio 2020 TUTELA INFORTUNISTICA PER CASI ACCERTATI DI INFEZIONE DA CORONAVIRUS SUL LAVORO. Articolo 42, comma 2, Cura Italia (legge 27/2020). CHIARIMENTI

In seguito alle prese di posizione di Confcooperative e delle altre Associazioni datoriali, il Ministro del lavoro Catalfo ha chiesto ed ottenuto che l’INAIL ritornasse sulla sua precedente circolare in materia (n. 13 del 3 aprile scorso), in particolare sui punti che hanno suscitato molte preoccupazioni. Infatti, con la nuova circolare in oggetto, l’Istituto tenta di approfondire e chiarire alcune delle contestazioni sollevate.

Diciamo subito che, in assenza di una modifica normativa, l’INAIL parte dal presupposto che il contagio COVID sul lavoro rimane infortunio. Però, nell’analizzare e spiegare i passaggi successivi, rende più trasparenti e maggiormente comprensibili gli effetti derivanti.

Questo non risolve completamente la questione che, in parte, rimane aperta. D'altronde, com’è evidente, non è nella disponibilità dell’Istituto sostituirsi al legislatore o modificare la direzione indicata dall’articolo 42 attraverso un atto amministrativo.

Ciò detto, la circolare entra nel merito della disposizione normativa premettendo e specificando che:

·     hanno applicato l’infortunio sul lavoro qual principio vigente (da decenni) in materia di patologie causate da agenti biologici;

·     tutte le patologie infettive contratte sul lavoro sono trattate come infortunio anche quando gli effetti si manifestano dopo un certo tempo;

·     esiste copiosa giurisprudenza di legittimità in materia;

·     gli oneri derivanti dall’infortunio di specie sono a carico dell’INAIL e non comportano maggiori costi per le imprese né l’innalzamento del premio assicurativo.

 

Nella sostanza l’INAIL dice che il legislatore ha voluto fornire al lavoratore la maggiore tutela possibile (infortunio) pur nella consapevolezza che il contagio da COVID-19 è il frutto di fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro al pari degli infortuni in itinere. Infortuni per i quali viene riconosciuta la tutela assicurativa al lavoratore, ma al datore non viene imputata alcuna conseguenza per l’evento infortunistico.

 

Seguendo questa logica, suffragata da un indirizzo giurisprudenziale consolidato, l’Istituto sostiene che anche nel caso in cui sia difficile o impossibile stabilire il momento in cui sia avvenuto il contagio, questo non può pregiudicare l’ammissione del lavoratore alla tutela infortunistica. Si deve ritenere raggiunta la prova dell’avvenuto contagio sul lavoro per via presuntiva come conseguenza ragionevole, probabile e verosimile secondo un criterio di normalità (cosiddetta presunzione semplice).

L’istituto si dilunga sul fatto che compete a loro la valutazione dei fatti e che non esiste nessun automatismo sull’ammissione alla tutela infortunistica dei casi denunciati.

Quindi, acquisizione di elementi, accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze, modalità lavorative, tempi di comparsa dei sintomi, etc. fino a giungere ad un giudizio di ragionevole probabilità basato su una rigorosa prova del nesso di causalità.

Questo giudizio è avulso da ogni valutazione sugli eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio che, se presenti, devono essere accertati con criteri diversi da quelli previsti per ammette all’indennizzo il lavoratore.

Per sostenere presupposti di responsabilità civile e penale, oltre al nesso causale, deve esserci stata quantomeno una condotta colposa del datore.

“Il riconoscimento cioè del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero. Così come neanche in sede civile l’ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo nella determinazione dell’evento.”

Perché “… omissis … non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (Cass. n.3282/2020)”.

Quindi, la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono identificare nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali

L’INAIL insiste sul concetto che, il rispetto delle misure di contenimento se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non basta per escludere la tutela infortunistica per il lavoratore nei casi di contagio da COVID-19, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che sottolinea l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario.

La circolare si conclude con un ampio paragrafo dedicato all’azione di regresso (rivalsa) in capo all’Istituto e cioè la facoltà di poter chiedere un rimborso delle prestazioni erogate al lavoratore danneggiato, qualora tra le cause che hanno provocato l’evento lesivo siano accertate delle responsabilità di uno o più soggetti.

Quando perciò sussiste una responsabilità del datore di lavoro nelle cause dell’evento dannoso subito dal dipendente, l’ente assicurativo può agire nei confronti del responsabile per ottenere una restituzione di quanto indennizzato per la malattia o l’infortunio professionale.

L’INAIL chiarisce che l’azione di rivalsa non può basarsi sul semplice riconoscimento dell’infezione COVID, ma deve esserci una comprovata violazione del datore delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida.

Ciò detto, rimane però uno spazio discrezionale dell’Istituto che desta ulteriori gravi perplessità.

Infatti, a seguito di sentenza della Corte Costituzionale, L’AZIONE DI REGRESSO NON È PIÙ SUBORDINATA ALLA SENTENZA PENALE DI CONDANNA.

Questo apre un nuovo problema sulla gestione che l’Istituto può fare attraverso la sua Avvocatura interna che può accertare, in istruttoria, se c’è stata o meno violazione del datore.

In conclusione, se da un lato l’Istituto prova a spiegare con maggiore dettaglio le sue motivazioni operative, sempre basate sul presupposto dell’applicazione della legge, dall’altro apre nuovi scenari fino ad oggi poco noti (se non per gli addetti ai lavori).

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Confcooperative proseguirà nel chiedere chiarezza sul tema nel confronto con il Governo e le altre Istituzioni interessate, compresa la sede legislativa per una modifica della norma di riferimento.

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